Il progetto
Conferenza di Tullio Carere-Comes - Bergamo, Palazzo Biblioteca Caversazzi, 1 dicembre 2007
Aprire una scuola di cura di sé è una decisione un po’ temeraria, perché chi si iscrive ha logicamente il diritto di aspettarsi di imparare quello che il nome della scuola promette – il che presuppone che i docenti sappiano come si cura, e prima ancora che cosa sia questa cosa che chiamiamo sé.
Mentre la realtà dei fatti è che nessuno sa bene che cosa sia questa cosa enigmatica. Peggio, non siamo nemmeno sicuri che esista. Certamente, i docenti qualcosa devono sapere, se offrono un insegnamento. Ma questo sapere è piuttosto dell’ordine del non sapere, cioè è un sapere di non sapere, quello specifico sapere che è alla base della filosofia – ma anche della psicoanalisi, e anche dell’arte. È vero che ci sono molti filosofi, e psicoanalisti, e artisti che affermano di sapere un mucchio di cose, e sono pieni del loro sapere. Ne sono così pieni che non c’è più spazio per l’enigma, per il mistero, per il dialogo, per la creatività: ma sono proprio questi gli spazi in cui ci dobbiamo muovere se vogliamo capire qualcosa sul sé.
In prima battuta lo sappiamo tutti che cosa è il sé. Il sé è tutto ciò che io sono e ho. Sono io con tutti i miei spazi e i miei oggetti, io più mia moglie e la mia macchina nuova, perché se mia moglie mi abbandona o mi rubano la macchina nuova sono perduto. Per questo lo so benissimo e immediatamente che cosa è il sé. Se mi toccano la moglie o la macchina nuova mi preoccupo moltissimo, se toccano la moglie o la macchina di un altro non faccio una piega. Ma non lo so solo io, lo sanno tutti. Anche i cani. Un cane sa benissimo qual è la sua coda e il suo territorio. Pestategli la coda o il territorio, e lui ringhia. Pestate la coda o il territorio di un altro cane, e lui non batte ciglio.
Sembra tutto chiaro. Invece no. È proprio vero che la macchina nuova fa parte del mio sé? Di quale sé? Recentemente ho letto di un anziano signore che aveva perso una gamba a vent’anni. Raccontava che questa perdita gli era parsa una sciagura spaventosa all’inizio, ma a distanza di tanti anni ritiene che sia stata la sua fortuna. Perché perdendo la gamba ha dovuto attivare delle risorse che non pensava di avere, e ha scoperto di essere una persona molto più ricca di quella che era quando aveva tutte e due le gambe.
Decenni fa in un ashram indiano ho partecipato a un esercizio che si chiamava enlightenment intensive. Questo esercizio consisteva nel trovarsi di fronte a qualcuno che ti martellava incessantemente la domanda “tell me who you are”. Dopo un’ora si cambiavano le parti ed eri tu a martellare l’altro. Poi si cambiavano le coppie e si ricominciava, per sedici ore al giorno e diversi giorni di fila. L’effetto era che più uno diceva quello che pensava di essere, più gli sembrava di non esserlo davvero. Si dice che quei pochi che sono arrivati fino in fondo nel pelare la cipolla dell’identità hanno scoperto che al centro non c’è niente: il sé è vuoto. È precisamente quello che sostengono i buddisti: il sé non esiste (è la dottrina dell’anatta). Non solo, ma la convinzione che il sé esista – che esista una cosa che, interrogata, risponde al nome di Tizio o di Caio – sarebbe la peggiore delle illusioni, e la causa di tutte le sofferenze. Tanto che per loro, i buddisti, la cura del sé consiste essenzialmente nel curare la convinzione erronea della sua esistenza. In questa tradizione io guarisco nel momento in cui prendo coscienza della mia non esistenza – anche se rimane il dubbio di chi sia colui che guarisce, dal momento che io, una volta guarito, non esisto più.
Un paradosso simile si trova nella tradizione cristiana, in cui è centrale il detto evangelico che chi vuole trovare o salvare la propria anima deve accettare di perderla (la parola sé copre oggi pressappoco la stessa area semantica che una volta era coperta, e per molti lo è ancora, dalla parola anima). Insomma il sé, almeno nel senso ordinario della parola, è anche qui qualcosa che è meglio perdere che trovare. A favore di cosa? Di qualcosa che trascende il sé ordinario, il sé dei santi, nelle tradizioni religiose, o dei saggi, in quelle laiche. Qualcosa che per noi, che non siamo né santi né saggi, assomiglia effettivamente più a un non-sé che a un sé. In queste tradizioni spirituali curare il sé significa superare il sé ordinario, in direzione di qualcosa che si può chiamare santità, illuminazione, saggezza, nirvana, o simili. Tuttavia è chiaro che il livello per così dire inferiore del sé, quello che deve essere superato, non può essere dato per scontato. Per esempio in ambienti buddisti si sente spesso dire che bisogna essere qualcuno, per poter essere nessuno. Come dire che se si parte da un sé immaturo, informe, che non è ancora riuscito a prendere una forma decente, prima di tutto bisogna rimpannucciare questa cosa informe, bisogna che prenda una forma capace di vivere e funzionare almeno con una relativa autonomia. Insomma, va bene superare l’ego, ma prima di tutto bisogna averne uno. Con un ego troppo debole non si va da nessuna parte, meno che mai si arriva alla capacità di superarlo. Quindi, in modo più o meno esplicito, le cure tradizionali del sé si svolgono su due piani: su uno si cura il rafforzamento del sé ordinario, psicologico, sull’altro si cura il superamento o la trascendenza di questo piano in direzione spirituale.
Come ci poniamo noi di fronte a queste tradizioni, di fronte alle concezioni del sé che ci sono tramandate in queste tradizioni? La nostra è una scuola laica, che però non vuol dire una scuola di miscredenti. In primo luogo la nostra scuola è laica come lo è la scuola pubblica: cioè non confessionale, ma aperta a tutte le fedi senza nessuna discriminazione. In secondo luogo è laica perché il nostro lavoro si basa sullo studio di tutte le tradizioni che si sono occupate della cura del sé attingendo da ciascuna ciò che ci sembra ancora valido e attuale. Ma le nostre basi non sono rivelative, né dogmatiche, né istituzionali. Le nostre uniche fonti, oltre allo studio, sono l’esperienza, la riflessione, il confronto, il dialogo. La nostra fede è questa: che sia possibile indagare sull’enigma del sé e della sua cura, e in questa indagine attivare effettivamente un processo di cura di questa cosa enigmatica, attingendo solo allo studio, l’esperienza personale, la riflessione, il dialogo – cioè alle risorse accessibili a ogni umano che voglia prendersi la briga di accedervi. È stato detto che la filosofia si occupa delle stesse domande fondamentali di cui si occupa la religione: come curare le passioni, che senso ha la nostra vita, come trovare se stessi. Ma se ne occupa senza l’aiuto di rivelazioni divine, sistemi dogmatici, istituzioni che amministrano questi sistemi. In questo senso la nostra posizione laica è basilarmente filosofica – in questa seconda accezione del termine l’aggettivo laico è sostanzialmente sinonimo di filosofico.
La stessa psicoanalisi, in quanto disciplina che ha come obiettivo la conoscenza e la trasformazione di sé, è per noi una forma di filosofia pratica, come lo è l’arte, intesa come attività creativa che appartiene a ogni essere umano, non solo a coloro che si definiscono artisti o lo sono per professione. L’arte, come ha mostrato Gadamer, non è un’attività dello spirito umano che appartiene al territorio della coscienza estetica, intesa come un regno a sé, il regno dell’illusione, che nulla ha a che vedere con la verità e la realtà. Al contrario l’arte, in generale la creatività, ha un nesso essenziale con la verità, in quanto nella creazione l’artista trasforma se stesso, conosce se stesso, si conosce in quanto si trasforma. L’arte è quindi anch’essa, come la psicoanalisi, è una forma di autoconoscenza e autotrasformazione. Entrambe possono essere viste come modi particolari di adempiere al precetto delfico conosci te stesso, pietra angolare di ogni filosofia d’Occidente e di Oriente. Cura di sé è essenzialmente conoscenza e trasformazione di sé, il compito fondamentale della filosofia, soprattutto della filosofia antica, un po’dimenticato nel medioevo, quando la filosofia è diventata ancella della teologia – e sia la psicoanalisi che l’arte possono essere intese, da questo punto di vista, come forme di filosofia pratica, cioè come modi particolari di conoscenza e trasformazione di sé.
Con la psicoanalisi abbiamo un rapporto speciale perché due di noi sono psichiatri e psicoterapeuti, e la nostra formazione ha avuto luogo prevalentemente in questo campo. Dal tronco freudiano si è sviluppata nel Novecento una ricchissima ramificazione di psicoterapie e di applicazioni diverse, tra le quali possiamo includere anche le scuole di counseling, come la nostra. Il counseling si differenzia dalla psicoterapia, in prima battuta, perché non si propone direttamente come una cura di disturbi della psiche o del sé, ma come un’attivazione della capacità di cura proprie di ogni essere umano. In fondo però la stessa cosa si potrebbe dire della stessa psicoanalisi: che nel suo senso proprio e originario è una forma di conoscenza di sé attraverso l’immersioneprolungata nella relazione analitica. Ora, proprio in questa lunghezza esagerata del trattamento psicoanalitico sta una delle ragioni di essere del counseling. Ai primordi questa immersione era intensa, ma breve. Col passare del tempo è diventata sempre più lunga, tanto che alla fine della sua lunga carriera scientifica Freud scrisse un lavoro intitolato Analisi terminabile o interminabile?, in cui prendeva atto di un fatto che da allora è stato confermato al di là di ogni dubbio: è molto difficile terminare un’analisi. Cioè, se si vuole è anche molto facile: basta smettere di andare dall’analista, ed è bell’e finita. La difficoltà consiste nel fatto che di regola alla fine dell’analisi o terapia quando va bene il paziente è più o meno guarito o migliorato dai suoi disturbi, ha imparato a guardarsi dentro e ad auto-analizzarsi, e anche ad analizzare gli altri (e non è detto che tutta questa analisi di sé e del prossimo sia sempre un vantaggio). Tuttavia nella maggior parte dei casi non è pervenuto a una piena autonomia, tanto che se vuole procedere nel suo cammino di conoscenza di sé e crescita personale deve tornare quasi sempre, per periodi più o meno lunghi, in analisi. Un fatto ben noto, tanto che non è raro che dei medici di base sconsiglino con fermezza i loro pazienti di intraprendere una psicoterapia, perché crea dipendenza. Meglio gli psicofarmaci, dicono, che un po’ di dipendenza la creano per la verità anche loro, ma costano molto meno.
Freud lo aveva capito, alla fine, che l’analisi è interminabile. Ma non credo che avesse capito perché è interminabile. Né credo che potesse capirlo, non avendo potuto assistere alla trasformazione in senso relazionale della psicoanalisi nei decenni successivi alla sua scomparsa. Trasformazione il cui succo è questo: il paziente guarisce, se e nella misura in cui guarisce, non solo o non tanto perché ha imparato ad analizzare il suo inconscio così bene da poter continuare a farlo per conto suo negli anni a venire, ma perché è successo qualcosa nella relazione col suo analista. Si è gradualmente capito che il paziente trasferisce in quella relazione non solo fantasie infantili e desideri impropri, ma anche bisogni evolutivi cui l’analista risponde non più mostrandone l’improprietà, perché impropri non sono, ma fornendo una nuova esperienza relazionale, di cui il paziente ha un bisogno vitale non avendo potuto trovarla altrove. Chiarito questo, l’analisi potrebbe terminare una volta soddisfatti quei bisogni. Per terminare, termina, perché non si può restare in analisi tutta la vita. Ma il risultato, bene che vada, è parziale. Il lavoro deve continuare, ma dove e come? Se il paziente non vuole tornare periodicamente per un supplemento di analisi, come suggeriva Freud, la cura di sé deve essere restituita alla competenza del paziente, con un trasferimento al contrario: quei bisogni evolutivi che il paziente aveva trasferito dentro la relazione con l’analista, e che questa non può esaurire, debbono essere ritrasferiti fuori, nella vita reale. Il problema è che la vita reale di solito non è affatto pronta per questo trasferimento, anche perché nella maggior parte dei casi nessuno sa bene che cosa debba essere trasferito, né dove e come, o non si pone nemmeno il problema.
Le religioni mettono a disposizione dei fedeli i loro spazi comunitari e le loro attrezzature rituali, liturgiche, simboliche. Il mondo laico deve inventarsi qualcosa che svolga una funzione analoga. Nel mondo secolarizzato la comunità tende a sparire, sostituita da reti di relazioni. Perché la comunità si raccoglie intorno a qualcosa: un mito o a una tradizione, un maestro spirituale o l’istituzione che ne riceve il lascito. L’unico legame tradizionale che oggi resiste è la coppia, con o senza figli. Per questo la coppia oggi da un lato viene sovraccaricata di aspettative, dall’altra è priva di quel supporto comunitario che nella cultura tradizionale la contiene e la sostiene. Alla coppia si chiede di essere l’anello centrale di una rete di relazioni famigliari e amicali. Ma la coppia è anche il luogo di conflitti laceranti, che la coppia difficilmente riesce a gestire, se è lasciata a se stessa. Con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Una quantità impressionante e crescente di coppie fa naufragio, quelle che resistono spesso si tengono assieme solo per mancanza di alternative – perché comunque la coppia resta il luogo della soddisfazione di bisogni materiali, primari, ma difficilmente riesce a diventare quello che lo spirito del tempo le chiede, cioè di farsi carico anche di bisogni culturali, nel senso della coltivazione di sé, quindi di essere il luogo di una crescita personale permanente prodotta da una cura congiunta e reciproca di sé. Eppure questo si dimostra sempre più necessario, perché senza questa cura di sé congiunta e reciproca molto difficilmente la coppia riesce a gestire i conflitti e i problemi che su di essa si riversano o in essa si esprimono – e se non ci riesce la sua esistenza non può che essere precaria e assai grama.
Ecco dove si inserisce il counseling, specialmente nella forma di una scuola di cura di sé, come la nostra. L’obiettivo primario è quello di addestrare le persone a prendersi cura di sé all’interno della rete di relazioni in cui vivono, e quindi prendersi cura di sé e di questa rete. Il che significa anche costruire questa rete, o per cominciare almeno una relazione al cui interno questa cura possa avere luogo. Per questo nei laboratori della nostra scuola privilegiamo il lavoro a coppie. Coppie che possono iscriversi alla scuola già formate, o coppie di lavoro che si formano all’interno della scuola tra persone che si iscrivono da singole. Non intendo necessariamente coppie in senso stretto, possono anche essere coppie di amici o di parenti, comunque di persone legate da un’intenzione di cura reciproca di sé.
La dimensione relazionale della cura, e in particolare di coppia, è di particolare rilevo per noi per un altro motivo. Dopo aver chiarito che la cura di sé è per noi un lavoro che ha una dimensione filosofica essenziale, aggiungiamo che questo lavoro non può essere solo filosofico, avendo anche una dimensione psicologica ineludibile. Per fare filosofia occorre un livello minimo di adultità. Anche con un bambino si può fare un certo dialogo filosofico, anzi non di rado i bambini si mostrano capaci di una saggezza che sorprende e spiazza gli adulti, una capacità intuitiva fresca e non ancora guastata dai condizionamenti educativi. Tuttavia è fuori di dubbio che le cure di cui hanno bisogno i bambini non sono primariamente filosofiche, ma sono quelle che rientrano nelle competenze genitoriali di base. Il mestiere dei genitori non è semplice: se lo fosse, quasi tutti i bambini emergerebbero dall’infanzia belli come ci sono entrati venendo al mondo. Sappiamo bene che non è così. L’infanzia in realtà è un tempo piuttosto rischioso, da cui è molto probabile uscire poco o tanto traumatizzati o deprivati di fattori di crescita essenziali, sia dal lato dell’ambiente sicuro, sia da quello della responsabilizzazione. Pertanto, un laboratorio di cura di sé non può occuparsi solo di questioni filosofiche: deve occuparsi anche di quei disturbi della crescita del sé conseguenti a traumi o difetti educativi. La relazione deve essere il luogo in cui queste distorsioni possono essere indagate, e nei limiti del possibile riparate. Naturalmente, se questi guasti sono di una certa entità, un trattamento psicoterapeutico personale è insostituibile. Tuttavia molto può essere fatto anche nell’ambito del counseling. Basti considerare che al di là delle tecniche specifiche utilizzate dalle diverse scuole psicoterapeutiche, si ritiene, ed è stato anche dimostrato empiricamente, che ciò che funziona di più e produce la maggior parte dei risultati non sono queste tecniche specifiche, ma i fattori comuni a tutte le pratiche psicoterapeutiche. Non solo: questi fattori sono comuni a tutte le relazioni di aiuto, inclusa quindi anche la relazione di counseling. Le competenze di un counselor coprono precisamente quel terreno comune a tutte le relazioni di aiuto, quel terreno su cui avviene la maggior parte delle interazioni terapeuticamente efficaci.È un dato importante per chi fosse interessato al counseling come professione.
Chiediamoci, per finire, che professione è mai questa del counseling. La risposta non è semplice. Chiedersi chi è un counselor è come chiedersi chi è uno psicoanalista – la risposta è ardua, se si considera che ci sono pressappoco tante teorie psicoanalitiche quanti sono gli psicoanalisti nella stanza. La nostra matrice dialettica, peraltro, ci aiuta a capire che una cosa è ciò che è solo per contrasto con ciò che non è. Qual è allora la cosa per contrasto con la quale si definisce il counselor? Naturalmente lo psicoterapeuta. Lo avete letto anche sulla brochure, è la prima cosa che un counselor deve sapere, anche per non rischiare di essere accusato di esercizio abusivo della professione medica o psicologica. Il counselor non cura, ma attiva le capacità di cura che sono competenza comune di ogni umano. In questa definizione, che in una versione o nell’altra troverete ripetuta in tutte le scuole di counseling, l’accento è di regola sul fatto che il counselor non tratta malattie, ma promuove la salute. Tuttavia questa lettura non dice tutto, anzi non dice granché. Per promuovere la salute occorre comunque partire da un disagio, che sarà esistenziale piuttosto che da manuale diagnostico, ma sempre disagio è. Inoltre, anche molti psicoanalisti vi potrebbero dire che loro non si occupano di sintomi, ma solo di portare l’inconscio alla coscienza – quindi di rendere le persone più consapevoli, e di conseguenza mentalmente più sane. Quindi non si capirebbe che differenza c’è tra uno psicoanalista e un counselor.
Voglio dire che se ci limitiamo a sottolineare la differenza tra il curare e il favorire lo sviluppo delle capacità di cura – cosa che comunque in prima battuta dobbiamo fare – non arriviamo a cogliere la specificità del counseling. Che invece si coglie se completiamo la frase: le capacità di cura che sono competenza comune di ogni umano. Che cosa significa questo? Tutte le relazioni di aiuto, dalla cura genitoriale alla psicoanalisi, condividono un piccolo numero di fattori che devono necessariamente essere presenti perché una cura possa aver luogo. Per esempio, un fattore fondamentale è la sicurezza. Nella relazione di aiuto il destinatario della cura deve trovare una base sicura, un luogo dove si sente incondizionatamente accolto, capito, accettato. Questa sicurezza non è mai perfetta, ma deve essere almeno sufficiente, good enough, perché ci possa essere una cura. Inoltre, l’esperienza stessa di sicurezza è curativa di per se stessa, indipendentemente da qualsiasi altra esperienza più specifica la relazione possa offrire. Ed ecco il paradosso: da molto tempo si è intuito, osservato, persino confermato empiricamente, che questi fattori comuni sono più importanti di quelli specifici dei diversi tipi di cura. Cioè a questi fattori comuni si debbono effetti curativi più significativi di quelli attribuibili ai fattori specifici dei diversi metodi.
Ora, la differenza tra il counseling e le altre professioni di aiuto si può cogliere più precisamente proprio focalizzando l’attenzione sui fattori comuni. Il counselor utilizza professionalmente i modi di cura che sono competenza comune, almeno potenzialmente, di ognuno. Li utilizza e aiuta i suoi clienti a svilupparli per conto proprio. Altri, mi riferisco soprattutto allo psicoterapeuta, si avvale di questi fattori comuni, ma a questi aggiunge anche fattori specifici dei diversi metodi. Questo vuol dire che un counselor è qualcosa di meno di uno psicoterapeuta? Sì, da questo punto di vista è qualcosa di meno, ha meno competenze. Ma da un altro punto di vista è qualcosa di più. Perché di regola le scuole psicoterapeutiche e psicoanalitiche sono molto fiere di ciò che hanno di specifico, per esempio raffinate e profondissime interpretazioni dell’inconscio per gli psicoanalisti, metodi di decondizionamento rigorosamente scientifici per i comportamentisti, e così via. Tutta questa attenzione per la specificità dei rispettivi metodi comporta inevitabilmente una diminuita attenzione per i fattori comuni, che non di rado vengono del tutto ignorati. Il counselor invece, non essendo distratto dall’apprendimento di metodi specifici di cura, può dedicare tutta la sua attenzione ai fattori comuni, a ciò che è comune a tutte le relazioni di cura, professionali o meno. E se si considera che, come è stato più volte rilevato, questi fattori di base sono in generale più efficaci di quelli più sofisticati, vedete bene che il counselor può trovarsi a disporre di competenze di cura superiori a quelle dei suoi colleghi psicoterapeuti.
Spero con questo di avere fornito qualche motivo, a chi fosse interessato al counseling come professione, per guardare a questa scelta senza sensi di inferiorità. Anzi.
Tullio Carere-Comes - Bergamo, 1 dicembre 2007