Il vertice A nella Mappa della cura: comprendere l'importanza dell'ascolto incondizionato nel counseling
- Blog Scuola di cura di sé
- 27 mar
- Tempo di lettura: 7 min
Nel counseling dialogico-processuale, l’ascolto incondizionato rappresenta il punto di partenza fondamentale per costruire una relazione con il cliente autentica e trasformativa. Attraverso la Mappa della cura, il counselor è guidato nell'occupare diverse posizioni in base alle necessità del processo, e il vertice A – dedicato all’accoglienza e all’ascolto empatico – è il primo passo per instaurare fiducia e sicurezza nel cliente. Questo testo esplora il valore di un’attenzione fluttuante e libera da giudizi, mostrando come il semplice atto di ascoltare possa attivare un potente processo di cambiamento.

L’approccio processuale
Mettere il Processo al posto di guida significa sospendere ogni sapere, come indicato dalla tradizione sapienziale inaugurata da Socrate. La visione dialogico-processuale è sostanzialmente diversa da quella medico-psicologica basata sulla diagnosi di un disturbo o problema e somministrazione delle procedure ritenute efficaci per la sua eliminazione o risoluzione, nella prospettiva delle restituzione nel tempo più breve e nel modo più economico del paziente alla sua vita normale. Nell’ottica processuale l’obiettivo non è la normalizzazione, ma la crescita o liberazione del soggetto. Per noi non esiste una normalità auspicabile, ma un processo virtualmente interminabile di risveglio o realizzazione. Mentre in una visione il disturbo o il problema sono cose da eliminare o risolvere, nell’altra sono opportunità da cogliere per scuotersi dal sonno egosferico e iniziare quello che è stato chiamato il “vero viaggio”.
Nell’approccio dialogico-processuale della nostra scuola usiamo una mappa per orientare il lavoro del counselor durante gli incontri con il cliente. Il campo base della mappa è il quadrato descritto dai due assi che uniscono i primi quattro vertici. Ciascun vertice indica la posizione che il counselor è invitato a occupare dalle indicazioni ricevute dal processo. Il primo asse unisce il vertice A, per Ascolto incondizionato, e il vertice C, per Confronto responsabilizzante: più semplicemente, i vertici materno e paterno intesi come le posizioni fondamentali che il counselor è chiamato a occupare dal processo della cura.
Quando iniziate a prendervi cura di un cliente non sbagliate se per cominciare vi installate nel vertice A, e non vi muovete da lì fintanto che non siete ragionevolmente sicuri del fatto che il cliente si sente incondizionatamente accolto da voi, cioè non giudicato e non spinto a fare alcunché. Prima di tutto dovete conquistare la sua fiducia con un ascolto incondizionato, privo di giudizi e di pressioni. Non sottovalutate l’importanza di questo ascolto: è una merce rara nei rapporti ordinari. Anche le persone più benintenzionate resistono a fatica alla tentazione di fornire interpretazioni e consigli, richiesti o non richiesti. Mettersi nei panni dell’altro/a, sentire quello che lui o lei sente, far sentire all’altro/a che lo/la sentite e accettate totalmente quello che sentite, senza la minima richiesta o pressione che l’altro/a cambi, nemmeno se l’altro/a ve lo chiede. Se l’altro/a vi chiede consigli o suggerimenti, la vostra risposta processuale è: mettiamoci in ascolto di quello che c’è e di quello che emerge dal processo. Se ci sembra di percepire una difesa, limitiamoci ad accoglierla: vedremo che il semplice accoglimento ci mostrerà da che cosa il cliente si sta difendendo.
L'attenzione fluttuante e il respiro
Evitate di sparare interpretazioni selvagge. Mettetevi nella posizione taoista del non fare. Non è facile perché siamo condizionati a fare in modo compulsivo. Non potete occupare correttamente il vertice A se non imparate a governare l’attenzione liberandola dalla cattura dei meccanismi di reazione automatica. Dovete praticare una attenzione fluttuante tra ciò che sentite del paziente e ciò che sentite in voi stessi, quello che provate in risposta a quello che prova il cliente. Questa è l’attenzione fluttuante di Freud. Ma in una pratica processuale l’attenzione è ancora più fluttuante: dovete aggiungere anche l’attenzione al respiro – il respiro è la base alla quale tornare continuamente. Per esempio sento il dolore del cliente che si lamenta di qualcosa, sento la mia compassione per il suo dolore o forse il mio fastidio per i suoi lamenti, e dopo aver sentito queste cose riporto l’attenzione al respiro per non farmi catturare né dai vissuti del cliente né dai miei, e non lascio il respiro finché non sento di avere un distacco sufficiente per sentire quello che c’è da sentire senza farmi catturare o condizionare da ciò che sento.
L'interconnessione tra i due canali della cura processuale – relazionale e meditativo – è subito evidente. La base della relazione è l’ascolto di sé e dell’altro, e questo ascolto è autentico solo nella misura in cui è incondizionato. Per esempio mentre ascoltate il cliente vi capita di avvertire un senso di fastidio o di noia per quello che sentite. È evidente che se vi fate prendere da queste sensazioni smettete di ascoltare. Non serve nemmeno capovolgere il giudizio e giudicare sé stessi invece del cliente: non devo provare noia o fastidio, che razza di counselor sono se provo questi sentimenti negativi! No: accogliete tutto quello che c’è, inclusi i vostri sentimenti di noia o fastidio, ma non permettete che la vostra attenzione ne sia catturata. Riprendete la vostra attenzione, la portate al respiro, e con il distacco così guadagnato osservate la vostra noia e il vostro fastidio così come osservate la sofferenza e i lamenti del cliente. In questo modo riuscirete a vedere la connessione tra tutto quello
che sta succedendo. Per esempio potrete vedere che il vostro fastidio si collega alla sensazione che il cliente vi sta manipolando per farsi compatire. Oppure che il dolore del cliente è andato a toccare un vostro dolore che in questo momento non volete sentire. Lungi dall’essere un inconveniente, il fastidio che state provando diventa per voi una guida per cominciare a capire che cosa sta succedendo al vostro cliente e che cosa sta succedendo a voi.

La difficoltà dell’ascolto autentico
Vedete che già nel vertice A della mappa, cercando solo di ascoltare e non fare altro, si mette in movimento il processo della cura processuale. Il cliente esprime dei sentimenti che attivano in voi dei sentimenti, e se volete ascoltare davvero quello che succede non dovete farvi condizionare né dai sentimenti del cliente né dai vostri: vale a dire, non dovete permettere che la vostra attenzione sia catturata da quello che sta succedendo, e soprattutto dai vostri giudizi su quello che sta succedendo. Quello che il cliente dice o fa in questo momento mi infastidisce. Chissà perché, non lo so. Questo non sapere è la chiave fondamentale della cura. La mente ordinaria non sospende i giudizi. Se questa persona mi infastidisce, vuol dire che è una persona fastidiosa. Oppure sono io in difetto, perché un bravo counselor non dovrebbe provare fastidio per quello che il cliente dice. Quindi prima ancora di prendervi cura del vostro cliente vi prendete cura di voi stessi, della vostra attenzione. Cominciate a educarla, non permettete che sia catturata dalle emozioni, dai giudizi, dagli schemi mentali. Se poi è catturata fate un respiro più profondo – non è
necessario che il vostro cliente se ne accorga – e portando l’attenzione al respiro la distogliete da tutto ciò che la stava catturando.
La nostra scuola si chiama Scuola di cura di sé, perché la cura di sé è la base per potersi prendere cura degli altri. Freud aveva ben chiaro questo concetto in una prima fase del suo lavoro. Ricordate la sua definizione di attenzione fluttuante del 1912: «la riuscita migliore si ha nei casi in cui si procede senza intenzione alcuna, lasciandosi sorprendere ad ogni svolta, affrontando ciò che accade via via con mente sgombra e senza preconcetti». Tuttavia il campo delle pratiche meditative gli era del tutto estraneo. In linea di principio aveva capito l’importanza cruciale del lasciar fluttuare l’attenzione senza permettere che si fissi ad alcun contenuto mentale, ma in pratica non sapeva come farlo. Gli mancava la nozione essenziale che per non farsi catturare dalla mente bisogna addestrare l’attenzione a soggiornare nel vuoto mentale con l’aiuto di un riferimento non mentale, in particolare l’esperienza del respiro. Altrimenti l’identificazione con qualche contenuto mentale è inevitabile. Così Freud non riuscì a restare fedele alla sua indicazione del 1912 e mise al centro del suo lavoro analitico non più l’ascolto incondizionato ma una teoria, precisamente una teoria della sessualità infantile centrata sul complesso di Edipo. Qualsiasi teoria può arricchire il bagaglio di conoscenze di un counselor di orientamento dialogico-processuale, purché sappia estrarla se e quando richiesto dal processo e non sia il fondamento della cura a cui tutto ciò che accade deve essere riportato, con tanti saluti al dialogo e al processo. Quasi tutte le scuole di psicoanalisi, di psicoterapia e di counseling hanno seguito l’esempio di Freud. In questi casi l’ascolto non è incondizionato ma è guidato dalla teoria del curante. Tutto ciò che accade viene letto con la lente di una teoria e trattato con le procedure derivate da quella teoria.
Nella cura dialogico-processuale l’approccio è diverso. Qui la chiave è la presenza incondizionata libera da qualsiasi appartenenza teorica o tecnica. Il vuoto mentale presidiato da questa presenza è particolarmente favorevole allo sviluppo del processo, che non manca di fornire tutte le indicazioni sul da farsi. Naturalmente anche il counselor e l’analista di orientamento processuale dispongono di un bagaglio di conoscenze teoriche e pratiche acquisite nella propria vita personale e professionale, ma questo bagaglio rimane sullo sfondo e viene utilizzato solo se e quando il processo ne suggerisce l’uso. In sostanza, la cura è governata dal processo, non dalla cassetta degli attrezzi del curante, che può benissimo restare vuota.
«La dipendenza dalla conoscenza è come ogni altra dipendenza. Offre una via di fuga dalla paura del vuoto, della solitudine, della frustrazione, della paura di essere nulla». Questa citazione di Krishnamurti ci arriva dalla vostra ex compagna Silvana, ancora una volta in sintonia con le cose che diciamo e facciamo qui. Io aggiungerei che la dipendenza dalla conoscenza è più sottile e insidiosa di tutte le altre dipendenze, perché nel mondo in cui viviamo la conoscenza non è percepita come una dipendenza, ma come una virtù. Naturalmente bisogna intendersi sul significato che diamo alle parole. C’è conoscenza e conoscenza, così come diceva Bion che c’è parola e parola. C’è la parola piena che nasce dal silenzio e la parola vuota – la chiacchiera – che nasce da un flusso ininterrotto di parole prodotte da una mente incapace di stare in silenzio. Allo stesso modo c’è la conoscenza che nasce dal vuoto e c’è quella che serve a proteggere dalla paura del vuoto.
Testo tratto dal seminario del 22 Marzo 2025 condotto da Tullio Carere-Comes
Parte 1- Il vertice A
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